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La gerarchia è una torre inespugnabile


CAPITOLO QUINTO

"Era una giovane balda, e tutta piena d'arditezza, e tutta affettatuzza, ed atteggevole"

(Vita di Sant'Antonio)

Mi alzo, sono le due meno cinque, devo riprendere il mio posto. Mi avvio quieta, quieta (rassegnata suona meglio però) verso il corridoio del mio reparto, quando ad un tratto vedo fermarsi davanti a me il portaborse del grado più elevato dei miei connazionali qui dentro. In altre parole: l'angelo custode della Divinità Italiana di tutta la nostra Sacra Organizzazione. Che buffo, non ricordo nemmeno il suo nome. Il "mittente Gabriele", non mi ispira nemmeno una simpatia immediata, ma devo riconoscere che è piuttosto giovane e belloccio, comme un ange quoi. "Oddio, non sarà mica per quella vecchia storia?" mi dico, cercando di controllare una montata di sudori freddi.

"Dottoressa Carminati?" mi fa lui.

Abbozzo un debole sorriso, forse so il motivo del suo stop-over, ma a dire il vero, visto il passare dei giorni, pensavo che quella questione fosse finita in una bolla di sapone.

"Si, buongiorno. Ci rivediamo." Rispondo io, cercando di apparire disinvolta.

Era vero, infatti, che non si trattava della prima volta che ci incontravamo. Voilà sputato il rospo: in un momento di audacia baldanzosa ero andata a trovare il gentiluomo in questione a seguito di un fatto che mi aveva corroso il fegato dalla rabbia. E ora la giovane balda ne doveva assumere le conseguenze... Eh si, perchè forse questa volta l'avevo combinata grossa. Se non ricordo male i fatti, per lo scorso ricevimento di Natale, (e vedi che i Santi c'entrano ancora...), sua Maestà l'Imperatore romano aveva pensato bene di spedire un invito solo ai compatrioti di certi "ceti professionali", dimenticandosi volutamente di tutti gli italiani... diciamo "di serie B" della grande OI. In sostanza, il grado parametrava la tua esclusione o meno al piccolo party italiano... alla faccia del "volemosi bene" nazionale e del vero spirito del Santo Natale. La "casta" nazionale non voleva promiscuità nemmeno sotto le feste. O prendere o lasciare.

La risposta a tutto questo fu una rivolta "intestina" collettiva, alla quale, beninteso, partecipai attivamente. Ero cosi furibonda che, se non ricordo male, quella stessa sera per calmare i miei bollenti spiriti, scrissi una lettera memorabile. In quel momento, vomitare impetuosamente su carta la reazione dei miei connazionali esclusi, mi sembrava insomma la cosa più naturale. La mattina seguente mostrai ingenuamente la lettera ad un collega, e senza rendermene conto la voce circolò nei corridoi. Manco a dirlo, molti italiani – paria di serie B come me - mi inondarono di complimenti. Mi dissero che quelle righe racchiudevano tutta la loro rimostranza, e mi raccomandarono di inoltrarla al più presto perchè una lettera cosi non poteva restare nel cassetto e basta. Inebriata da quella improvvisa popolarità, in un momento di trasporto passionale, decisi di portarla personalmente alla segreteria del diretto interessato. Apro parentesi: mi fu riferito in seguito che la gentile assistente che mi fece fatto passare nell'ufficio del portaborse, senza un previous appointment e senza aver debitamente annunciato l'oggetto della mia visita, si fosse poi beccata una bella lavatina di capo (un savon quoi!). A dire la verità, se le mie riminiscenze sono giuste, devo ammettere, che il portaborse-angelo in questione mi aveva comunque ricevuto con modi eleganti, anche senza il famoso rendez-vous, e aveva ascoltato attentamente la mia rimostranza fino in fondo.

Io gli avevo gentilmente lasciato una lettera da me firmata personalmente, ma che riassumeva la delusione di tutti gli italiani "plebei" che avevano vissuto il "non-invito" di Santa Eminenza come un terribile affronto.

"Era una giovane balda, e tutta piena d'arditezza, e tutta affettatuzza, ed atteggevole" (Vita di Sant'Antonio). Ma ora quella stessa balda, che era piombata nell'ufficio delle alte sfere con il suo papier venimeux, ne doveva assumere le conseguenze... Ma cosa avevo mai scritto per ritrovarmi, oggi, bloccata dal solare bel "Gabriele" in quell'oscuro corridoio dell'OI?

Con il pelo pettorale fuori dal colletto della camicia quel bel fustacchione mi guardava sorridendo. Tutto era nato da quella benedetta lettera che io non ricordavo nemmeno distintamente. Ma si, si che me la ricordavo: il testo della missiva faceva più o meno cosi:

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Egregio... "testa di..." (chiaramente avevo indicato il vero nome, però l'epiteto era quello che avrei voluto e dovuto veramente scrivere).

L'Italia è un paese solare, un paese dove il buon gusto trasuda anche dal più piccolo dettaglio personale. Una nazione ricca di cultura dove tutti si chiamano "Dottore" per meglio enfatizzare l'attenzione e il rispetto che noi italiani nutriamo per i titoli. E' quindi un onore per noi, caro "testa di..." inviare la presente lettera, attraverso la quale vorremmo esprimere tutta la nostra riconoscenza per averci dato modo di rientrare nel perimetro sociale al quale apparteniamo. La distinzione effettuata dal Suo pregiato ufficio nell'invio degli inviti per il ricevimento natalizio, ci ha permesso di uscire da quella condizione patologica che, in gergo medico, è solito chiamarsi acromatopsia corticale. La nostra cecità al colore, causata dal fatto di lavorare da troppi anni in un ambiente internazionale, ci aveva, infatti, portati a credere che, ben lungi dal sussistere ancora ataviche dicotomie tra italiani di serie A e italiani di serie B, fossimo diventati tutti una grande famiglia capace di riunirsi in occasioni particolari (come del resto altri Suoi predecessori ci avevano erroneamente insegnato, infettandoci con questa grave abitudine giacobina).

Che si alzi al cielo, quindi, la nostra riconoscenza nei Suoi confronti, in quanto finalmente, grazie all'esclusione dalla lista delle persone gradite alla Sua venerabile festa, abbiamo potuto finalmente ridestarci dall'andazzo oppiaceo al quale l'apertura di vedute dell'ambiente multiculturale ci aveva sprofondato.

Spiacenti del prurito intellettuale che ci aveva spinto a credere ad una possibile integrazione nella comunità italiana di questa Organizzazione, nonche' sicuri che la nostra perniciosa ingenuità non faccia più capolino tra i meandri della, ormai grazie a Lei, revisionata struttura cognitiva delle categorie socio-professionali, cogliamo l'occasione per inviarLe i nostri migliori auguri di buone feste. Stia pure tranquillo, la serie B degli italiani resterà sempre a Sua completa disposizione per fare da ancella, come una brava Cenerentola, alle favole che il nostro paese si racconta anche all'estero.

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C'ero andata giù dura e lo sapevo. Ma in quel periodo quello era ciò che noi italiani "dimenticati" pensavamo fino in fondo. Era anche vero che nel frattempo ne era passata di acqua sotto i ponti. In sostanza la rabbia e la delusione che avevano fomentato l'audacia di quel momento si erano smussate nel giro di qualche settimana. Alla fine ci eravamo detti: "Facciano pure il loro party del cazzo tra panettoni e spumanti, tanto a noi che ce ne frega?". Ma adesso mi ritrovavo davanti quel luminoso fustaccione. Ed ero certa che mi avrebbe disintegrato con i suoi occhi laser.

E invece mi dice: "Mi fa piacere vederla per caso, stavo per passare alla mia segretaria una email".

E io penso: ma perchè, non è capace di scriversele lui le sue emails? Però mi limito ad annuire con aria interessata.

"Abbiamo letto con attenzione la sua missiva, e mi scuso per il ritardo con cui le rispondo. Ma sa... un periodaccio... Comunque per venire alla nostra questione ci rattrista il fatto di non aver pensato subito ad estendere l'invito a tutti, ma questioni come la limitata location e il budget ridotto hanno portato a restringere la lista."

Annuisco ancora e aspetto il seguito, se ci sarà un seguito...

"Comunque, abbiamo risolto il problema, sia per il Natale del prossimo anno, sia per la festa italiana di giugno. Sono quindi lieto di comunicarle che da ora in poi l'invito sarà inviato a tutti". Mi dice trionfante.

Ecco il seguito, quindi c'era... eccome. Ma allora è proprio un angelo quel fustacchione là. Esulto mentalmente: Che teofania, che vittoria!

"Mi fa piacere. Peccato per il ricevimento passato. Comunque grazie per aver trovato una soluzione per il futuro. Sono veramente colpita dalla vostra sollecitudine". In realtà erano trascorse molte settimane, ma si sa, la burocrazia non viaggia alla velocità della luce. Insomma davanti ad un risultato cosi importante, non potevo cogliere solo le pagliuzze, dovevo capire la portata futura della vittoria: da ora in poi, grazie alla mia letterina del cazzo, tutti i miei compatrioti saranno sempre invitati ai party italiani senza alcuna distinzione di grado!

Il bel portaborse mi illumina con il suo sorriso a trentadue denti, e con le sue belle iridi di un azzurro temporalesco. Amabilità artefatta? No, diamogli il beneficio del dubbio, forse è contento perchè pensa: l'incidente è chiuso, affaire classé. Insomma una bega in meno per il prossimo Natale.

Anch'io ricambio il sorriso, tirando la mascella fino all'inverosimile, sperando soprattutto che lo yogurtino non mi abbia lasciato qualche residuo fisso tra i denti e che non abbia trasmesso, parlando, una ventata di alito da morto.

"Non esiti a ricontattarmi se ci fossero altre questioni. Le lascio il mio biglietto da visita."

"Grazie" dico, osservando la carta del bell'angelo Gabriele. Finalmente vedo il nome: Dott. Vittorio Potenza. E te pareva, come poteva chiamarsi il tipo? Sorrido per il paradosso dell'associazione viso-nome. Uno cosi mica poteva chiamarsi Topo Gigio no?

E voilà sparire, cosi com'era apparso nei corridoi, il dottorino illuminato. Non mi rimetto ancora dalla soddisfazione orgasmica di essere riuscita a smuovere le torbide acque dell'ingiustizia socio-professionale dell'invito natalizio. Io, povera donnuncola affettatuzza, con la mia letterina del menga. Allungo il passo sculettando a due metri sopra il pavimento. Le mie sforbiciate nei corridoi scivolano leggiadre come farfalle, mentre il mio morale fa i salti nell'acqua come un delfino in pieno show marino. Bref, je n'en reviens encore pas...

Arrivo in ufficio cocainata dalla notizia. Dalla mia banca dati estraggo la lista degli italiani esclusi dal famoso evento, e scrivo: "Cari tutti, ho incontrato il Dott. Potenza nei corridoi: ce l'abbiamo fatta! Da ora in poi saremo tutti invitati alla prossima cerimonia di Natale, e alla festa della Repubblica."

In quel un clima mentale di grande eccitazione clicco "invio", e aspetto trepidante i primi messaggi di congratulazioni che arriveranno per festeggiare la vittoria sulla fortezza inespugnabile. Che sensazione ubriacante. Diventerò cosi famosa nel mondo che, marito a parte, magari riuscirò a portarmi a letto perfino Brad Pitt! Eh si, mi si puo' dire di tutto, ma non che nella mia infedelità mentale, manchi di coerenza. Non sono mica una peripatetica. Da anni resto appassionatamente fedele a Brad Pitt nei miei sogni di infedeltà coniugale. E cosi eccitata dalla piccante e peccaminosa possibilità di un romantico amplesso con la star americana, aspetto l'arrivo delle prime emails. Passano i secondi ma niente. Riguardo il mio inbox... e ancora niente. Comincio a lavorare, e sempre niente. Ma che cavolo, dormono tutti? Ma hanno capito che da adesso in poi non ci saranno più discriminazioni di sorta? Hanno capito che l'artefice di questo cambiamento straordinario sono io?

I minuti passano, ma non arriva un fico secco, si vede che la gente è tutta occupata. Mi accingo a chiudere l'applicazione quando... eccomi premiata! Finalmente giunge la prima risposta.

"Cara Laura, grazie per l'informazione ma visto che sono stato sempre escluso non verrò ai ricevimenti futuri".

Allibita, e con la bocca aperta dalla sopresa, leggo anche le altre tre o quattro emails che adesso arrivano una dietro l'altra.

" Cara Laura, grazie ma non mi interessa più."

"Ciao Laura, finalmente hanno capito, era ora. Io comunque per rappresaglia non ci andrò".

E via di seguito...

Con le labbra chiuse in una smorfia indescrivibile, mi si stava fermando il muscolo cardiaco. Bella rappresaglia dei miei stivali! Capisco la loro decisione, ma visto lo sforzo che avevo fatto potevano almeno soprassedere a queste vendette da quattro soldi, no? Si stavano forse dimenticando tutti quei salamelecchi sciorinati per convincermi ad inviare la missiva? Insomma, il gesto magnanimo del grande manitù non era sceso dal cielo da solo. Mi ero esposta personalmente, porca miseria! Avevo scritto una lettera da premio Pulitzer, perbacco! Ero arrivata direttamente fino alle porte del paradiso italiano della OI parigina per portarla fisicamente negli uffici divini, perdindirindina! E adesso quei voltagabbana dei miei colleghi, quegli Arlecchini da commedia dell'arte, facevano gli altezzosi rifiutando il risultato per una puerile e sterile vendetta?

Grazie tante! Incasso con stile, ma dentro l'animo prevale un grande senso di solitudine. "Povero Potenza", penso. Si era dato tanto da fare, ed ecco il risultato...

Vorrei superare questo senso di isolamento per la delusione subita pensando che comunque io qualcosa lo avevo pur fatto per cambiare le cose, e "tans pis pour les autres", vuol dire che ne beneficeranno i nostri colleghi futuri. Ma che mi succede? Biliosi controllata? Avvilimento deprimente? No, non io. Mettiamola cosi: l'amara verità della situazione mi faceva solo provare un acido riflusso di gastrite... da prostrazione. Capisco la loro reazione, per carità. Però in questo momento quei connazionali mi sembrano... un po' meno connazionali e un po' più grulli. Anzi, a dirla tutta, dei pidocchiosi irriconoscenti.

Comunque so che poi la rabbia mi passa. Forse la mia rivolta è dovuta più all'idea del mancato coito potenziale con la star hollywoodiana, che altro. In fin dei conti si tratta di brava gente. E' una piccola colonia locale di compatrioti del mio grado. Non sono certo degli yes-men quotidiani che dicono fanfaronate. Ne' sono come quei cafoni pronti a calarsi le brache quando vedono un pezzo grosso. Se hanno pensato di rifiutare i prossimi inviti avranno pure le loro ragioni. Mi fanno fare una mezza figura di merda, ma sempre le loro ragioni avranno no?

Ritorno ai miei dossiers, mi applico a fondo, ma nella testa mi suona la stessa canzone: "che figuraccia, che figuraccia..."

Cerco di non pensarci più e mi concentro sull'agenda del pomeriggio. Guardo il mio planning e mi rendo conto che ho solo dieci minuti per recarmi in sala riunioni. "Ci mancava anche il meeting settimanale". Mi dico alzando gli occhi al soffitto. Vorrei trovare la scusa (plausibile del resto) della mega-mole di lavoro per non andarci. Ma alla fine decido comunque che una riunione posticipata rimane una riunione che mi cuccherò un'altra volta e basta. Quindi armi e bagagli, mi avvio all'ennesima perdita di tempo. Il corridoio sembra non finire più, lo vedo grigio cupo e lo sento freddo, molto freddo. Arrivare sulla moquette della sala riunioni stranamente mi riscalda il sangue. Ci sono già tutti, mannaggia al mio proverbiale ritardo accademico. Si, tutti seduti al loro posto come bravi scolari in attesa della loro maestra, attorno a quel tavolo ovale costato una fortuna, ma che sembra semplicemente un'immensa tavola da pranzo Ikea per famiglie numerose. Chi con il suo black berry, chi con il laptop, e chi come me, con il suo vecchio e buon block notes e una penna che non scrive nemmeno se la scaldi sul camino, ci ritroviamo ad ascoltare l'ultima inutilità professionale. Mi siedo vicino ad una collega, alcolista part-time, situata volutamente ben lontana dal Gotha manageriale. E' ora del thè e lei ha portato al meeting anche la sua tazza. Peccato che la ceramica di solito racchiuda un liquido un po' diverso dal must britannico del primo pomeriggio. Eh si, perchè al posto del the' la signora in questione si regala spesso una dose generosa di vino rosso, ben mimetizzata dalla fine porcellana cinese, ma pur sempre intuibile dall'odore di Bacco che appesta l'aria. Mi siedo senza fare troppo la difficile, del resto è l'ultimo posto ancora libero, eppoi stare dall'altra parte del tavolo è una buona strategia per addormentarsi senza dare troppo nell'occhio.

Ad aprire le danze non c'è il nostro capo diretto, con la sua espressione da sushi e il suo odore di lettiera di gatto e borotalco, bensi' la project manager che usa sempre le scarpe con la suola colorata. Dice a tutti che mette i tacchi perchè per lei sono delle pantoufles ma è evidente che alla base ci sia un guadagno di centrimetri. Non ricordo mai come si chiama (arriva da un paese dell'Est dove tutti hanno nomi con quelle consonanti impronunciabili), però ha una faccia da Betsy che non riesco a chiamarla diversamente. Betsy, è una donna bassina, direi sui 45 anni, forse meno ma allora portati maluccio, e denti gialli da fumatrice. Non molto alta, molto truccata, cortese senza essere troppo conviviale, Betsy stende tutti con un pugno d'acciaio dentro a guanti di velluto (e a suole dal color porpora). Per raggiungere i suoi "targets" la nostra Betsy è capace di diventare assillante come uno stalker in crisi di astinenza. Quello che chiede, però, lo chiede con stile. Manipolatrice di alto livello Betsy, la nana gigante, sa girarti la frittata come vuole fino a farti accettare le sue decisioni senza nemmeno rendertene conto perchè "La science de gouverner est toute dans l'art de dorer les pilules" (Adolphe Thiers). Ad ogni santa riunione la donnina di un metro e cinquanta (più tacchi rossi) tira fuori le "tasks" che ha previsto per tutti noi imbecilli e ci mostra la scadenza finale da non dimenticare, pena una diarrea professionale (manco si trattasse di uno yogurt invece che di un progetto).

Pronta a punirti con il suo tacchetto scarlatto se non ottemperi al suo planning, facendoti però magicamente godere del piacere sadomaso come la protagonista del famoso romanzo americano delle 50 nuances, oggi Betsy sembra più scocciata del solito, come se sapesse che alcuni suoi scolari non hanno fatto i compiti a casa. Visto che oggi non penso di essere la sua cible, mi appresto a cadere tra le rassicuranti braccia del buon Morfeo. La voce di Betsy, la fustigatrice orgasmica, sembra scorrere in sottofondo come la predica logorroica di un buon vecchio parroco di campagna. Dopo un periodo di tempo non quantificabile, ascoltando cose con un grado di importanza completamente nullo, i miei sensi si scuotono. Mi sembra di percepire in lontananza una risatina: ah si, dimenticavo, è il momento del sorrisetto di circostanza. Qualcuno ha detto senz'altro una battuta. Senza attivare la connessione cerebrale, mi accingo comunque a seguire l'umore positivo della sala. Annuire e sorridere, annotare e far finta di capire. In fondo le regole di base di un meeting che si rispetti sono semplici da seguire no? Oggi la riunione sembra non voler finire. "Ma quando arriva il momento finale dei commenti?" mi continuo a chiedere spazientita. Finalmente siamo all'ultimo giro di tavolo. "Qualcuno ha qualcosa da dire? Domande?"

La collega con il suo vino-the sorseggia per festeggiare la fine del supplizio. Nella sua testa starà già pensando che ormai è l'ora dell'aperitivo serale. Anche io gongolo, perchè la perdita di tempo sta arrivando agli sgoccioli. Se almeno fosse servito a qualcosa, mi dico. Nessuna informazione di rilievo che giustificasse l'assemblaggio generale, nessuna decisione strategica da comunicare, nessun commento costruttivo da segnalare, nessun cambiamento strutturale da valutare, ergo: ognuno poteva restare al suo posto ad avanzare nel proprio lavoro, invece di farsi due marroni grandi cosi! Forza, chiudiamo baracca e burattini, l'ultimo atto della commedia è finito. Ma ecco i due o tre soliti che alzano la mano per leccare garbatamente il culo alla maestra dominatrice. Ok piccoli sottomessi siete meglio di Fido, bravi siete stati visti, un punto in più in condotta, niente sculacciate eccitanti per oggi. La pièce stavolta è arrivata agli applausi. Scuotimento generale di fogli e di slides, chiusura ermetica dei laptop, thank you for coming and goodbye.

Riprendo la direzione del corridoio che vista l'ora è' sempre più grigio (e stavolta le 50 sfumature non c'entrano un tubo fritto), sempre più cupo e sempre più freddo. Mi sembra di veder uscire Fred da una porta laterale, che qui dentro è nominato in modo assolutamente irreverente il... "Ginetto". Nonostante occupi un posto di rilievo qui Fred viene preso in giro da molti per i suoi atteggiamenti poco... virili. Io invece lo adoro, e non me ne frega un fico secco di sapere se è un macho o no. Sempre impeccabilmente vestito e curato, per me Fred è un collega affabile e socievole. Ma dato che dentro questa gigantesca OI la gentilezza non paga, coloro che lo chiamano "Ginetto" non apprezzano questo genere di qualità. Al contrario, essi passano il loro tempo a gossippare sui presunti gusti sessuali della persona in questione. Stupidi citrulli. Che pensassero al marciume nella loro vita sentimentale invece di andare a spettegolare sulle persone deliziose che finalmente rendono i contatti sociali più umani! Certo, con il suo fare cosi squisito e comprensivo Fred può sembrare più adatto a guidare la processione del Venerdi Santo piuttosto che una intera équipe addetta agli archivi. Ma quest'ottica miope ci è stata inculcata dal mito del manager iperattivo e iposensibile che vige ormai da troppo tempo tra i buildings di ogni piccola o grande impresa. Chi è amabile non è fatto di pasta da pizza! Significa avere un cuore, dei sentimenti, e una certa sensibilità interiore. Ma la dura legge del mercato non perdona le emozioni sul posto di lavoro. La legge del mercato è la legge di Darwin: vinca il migliore, punto e basta.

Proprio alcuni giorni or sono, il mio sguardo era caduto su un articolo dal titolo; "Sei odioso? Fai carriera e guadagni di più". Se non ricordo male il giornalista scriveva che gli arroganti guadagnano anche il 18 % in più di stipendio dei lavoratori "normali", anzi no, dei "sani di mente". Vent'anni di studi universitari americani per arrivare alla conclusione che l'educazione sul posto di lavoro è un handicap e che la gradevolezza è una tara, ossia una vera e propria penalità. Credo anche che il paradosso continuasse: il premio per l'odiosità spettava agli uomini di alto grado rispetto alle donne con lo stesso livello. Ergo, la par condicio tra i sessi non esiste nemmeno su questo punto! Il che significa che nello scalino più basso della carriera ci troviamo soprattutto gli esseri umani di sesso femminile, di indole pacata e amabile, mentre al vertice... Al vertice gli arroganti con lo sperma nel cervello.

Come poter dunque competere: nessun amabile Fred nella nostra OI può dunque essere visto come un negoziatore autorevole, deciso e volitivo. Perchè nell'immaginario collettivo, il vero vincente resta - e sempre resterà - il duro sul lavoro, poco umano e poco sensibile, molto uomo e poco Ginetto.

Fred mi saluta cordialmente, e anche io ricambio in modo quasi materno. In questo clima soffocante di ipocrisia il suo sorriso aperto e spontaneo, direi quasi infantile, mi sembra una boccata d'aria fresca che ha il sapore di una torta gustata in una casa provenzale dai toni pastello.

Come vorrei trovarmi fuori da queste mura... Ormai non mi chiedo nemmeno più che cosa ci faccio qui dentro. So che non si può mentire a se stessi nell'unica vita che abbiamo. Che strano... Questa frase mi fa pensare ad alcune repliche tratte dall'opera di Cechov "Le tre sorelle". Che catarsis intellettuale e filosofica: quest'opera è sempre stata ai miei occhi come un puro capolavoro teatrale di fattura superiore, intemporale ed eterno. E pensare che una volta, per beneficenza, avevo recitato proprio in questa pièce. Dovevo interpretare il ruolo di Maša, la sorella (già sposata con un professore più vecchio di lei) che poi si innamora del colonnello Veršinin. Eravamo un buon team, a parte qualche elemento perturbatore. Ricordo che una sera, dopo le ripetizioni, una delle attrici fétiches più ricercate dell'Atelier (soleva definirsi attrice, ma per me quella era una parola grossa visto che tutti li eravamo degli amatori) mi aveva avvicinato dicendo che lei non avrebbe mai accettato la parte della "coquette" con il militare, perchè era un ruolo da ragazza di facili costumi. Visto che mi ritrovavo di fronte ad una tipa dall'ignoranza abissale, alla quale evidentemente sfuggiva la portata tragica di una delle più belle figure femminili che Cechov abbia mai dipinto, mi limitai ad una esternazione di altrettanta volgarità intellettuale, dato che quella era la sola reazione possibile davanti a tanta decadenza culturale. La mia riposta, a dire il vero, non era tutta farina del mio sacco. L'avevo letta mesi prima in un'intervista rilasciata da una nota attrice italiana degli anni settanta; frase che avevo prontamente vampirizzato perchè ai miei occhi sembrava degna di memorizzazione. "Pensa", risposi alla tipetta in questione - invece a me il ruolo di Maša piace tanto, perchè mi dà orgogliosamente modo di dimostrare che so recitare... anche con il culo! "

Punto e a capo, la conversazione fu chiusa per sempre.

Il teatro è sempre stato la mia grande passione. No, a dire il vero il cinema è sempre stato il mio primo sogno da bambina. Avrò avuto poco più di sei anni e già pensavo a che colonna sonora avrei potuto abbinare ad un certo momento della mia giornata. Scoprii più tardi che questo è chiamato in termini musicali: esercizio di insonorizzazione. Non sapevo ancora leggere e già mi divertivo a trovare la musica più adatta per questa o quella situazione, come se la mia vita fosse già un film. Ma gli anni successivi dal punto di vista professionale non sono poi stati cosi cinematografici. O forse si? Se guardo gli ultimi anni passati qua dentro, effettivamente qualcosa simile ad un film lo posso anche ritrovare. Ma non era questa la pellicola che sognavo da piccola e per la quale avrei trovato una meravigliosa melodia da Oscar. Ricordo che mi piaceva inventare le canzoni personalmente, interpretarle, eppoi tirarle fuori al momento più idoneo. Sono sempre stata una piccola megalomane, lo ammetto. Nobody is perfect, sorry.

Ma la cosa che mi piaceva di più da piccola era sognare a occhi aperti degli atti coraggiosi e mirabolanti effettuati dalla sottoscritta per portare in salvo un animale in pericolo allo scopo di mostrare a tutti le mie capacità nascoste. Prima di dormire mi creavo un potenziale problema da risolvere, una location adeguata, e una platea da stupire, nonché i movimenti adeguati per poter compiere la missione che avrebbe dato al mio nome fama e lustro perenni. In pratica immaginavo tutti gli occhi addosso all'esile bambina che ero, mentre saltavo - con una grazia circense degna del Principato di Monaco - tra un ramo e l'altro di qualche fantomatico albero, per cercare di portare in salvo un cane che stava per essere investito o un gattino perso su un tetto. Con un altrettanto balzo atletico mi catapultavo sul selciato, dopo un paio di ardite piroette, accanto alla folla in delirio, per poi godermi gli applausi della gente riconoscente per aver portato in salvo l'animale in questione. Che dire, una specie di Spiderman in gonnella che va ancora alle elementari, o ancora meglio, una mini superwoman senza, però, le mutandone a stelle e striscie. Confermo: ero una megalomane.

Sempre da piccola anche il Divino mi incantava particolarmente. Ricordo che quando giocavo per strada, in un certo momento della giornata, approssimativamente verso le cinque, forse le sei di sera, il sole faceva capolino a mezza altezza tra due buildings. Quello per me era un vero momento magico. Quando percepivo che il sole stava spuntando accanto all'ultimo piano del primo stabile, dicevo ai miei amici: "aspettate, vado a vedere Dio". Per me quella calda palla rossiccia nel cielo che si faceva strada tra due alte case cittadine era una manifestazione puramente divina. Se chiudo gli occhi rivedo ancora la bambina che ero, lasciare i compagni con i quali stavo giocando a nascondino, e correre al tramonto, leggiadra e spensierata verso il punto fatidico, verso il posto magico dove il sole mi stava aspettando. E come ero felice... Avevo appuntamento con Dio, ed ero davvero felice. Senza lavoro, senza soldi, senza preoccupazioni, mi bastava una corsa e una palla di fuoco nel cielo per dirmi che il mondo era bello e che la vita era meravigliosa.

Un'altra cosa strana che mi capitava da bambina era il fatto di sentire cantare... gli angeli. Sembrerà demente ma mi sembrava di sentirli quando entravo nella... toilette. Non l'ho mai rivelato a nessuno per il timore che mi prendessero per una emerita deficiente, ma le cose stavano proprio cosi. A volte, durante il giorno, quando entravo in bagno, anche solo per depositare qualcosa, mi soffermavo ad ascoltare il respiro dei muri. Non ricordo quando sentii per la prima volta quel cantico soprannaturale, avrò avuto quattro-cinque anni, ma non oltre perché so con certezza che ad un certo punto, prima dell'adolescenza, non lo sentii mai più. Come se diventando adulta avessi perso questa capacità, questa sensibilità, questo canale di comunicazione con quei magnifici esseri ultraterreni. "Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se lo ricordano" (Antoine De Saint-Exupéry). Ricordo che cantavano benissimo. Intonavano delle melodie a cappella mai sentite prima. Non era un piccolo coro, ma tante voci insieme e ogni volta mi regalavano una nuova sorpresa musicale. Stessa coerenza di suoni, ma nuova canzone ogni volta. Cosi, di tanto in tanto, tornavo di proposito tra il gabinetto e il lavandino, e li in piedi, estasiata, aspettavo che arrivassero le voci tanto attese. Mentre ascoltavo mi perdevo tra questi suoni indescrivibili, e mi ritrovavo anch'io per pochi istanti tra le nuvole. Eppoi un giorno, senza nemmeno accorgermene, non cercai più questi momenti. Per anni non ne sentii nemmeno la mancanza, finchè un bel dì, non ricordo bene nemmeno che età avessi, ebbi come un lampo di memoria e mi ricordai che tempo addietro mi soffermavo ad ascoltare dei cori angelici. Mi resi conto, solo allora, che erano passati degli anni. Riprovai un paio di volte a riconcentrarmi in bagno per ricreare una certa atmosfera estatica, sempre vicino al water e al lavandino, ma l'unica cosa che sentii fu il richiamo di mia sorella che mi diceva di sbrigarmi perché era il suo turno per truccarsi. Ero diventata grande e non percepivo più nulla. Mi resi conto che non ero nessuno, che non potevo insonorizzare musicalmente la mia vita, che non potevo rendere concreti i miei sogni da supereroe di periferia, ma soprattutto che non avrei più sentito gli angeli cantare. Ero adulta... ma stavolta con la coscienza impotente e senza i sogni e le chimere di quando ero bambina...

Riprendo il mio cammino per i lungi labirinti della OI. Il pomeriggio sta arrivando alla fine e la sera questi corridoi ricordano il buio di una cantina. Il calar del giorno qui dentro è come una tenda di velluto, pesante, soffocante e opprimente. Arrivo alla mia scrivania spenta come un lumino flaccido sciolto dal tempo. Qualcuno nel frattempo mi ha depositato sul tavolo un blocco cartaceo di dimensioni gulliveriane. Mi siedo, stanca, e penso che un altro giorno è passato. L'idea di tornare a casa mi riempie di gioia, ma il beneficio se ne vola subito via al pensiero di ritornare qui domani. Stessa scrivania, stessa gente, stesso lavoro che non amo...

Abbasso la testa e mi accingo a spegnere il computer. Mi tocco la fronte, le mie tempie sembrano scoppiare. Cos'è questa sensazione strana... questo peso sullo stomaco che mi blocca il respiro e che mi fa star male? Qui dentro i giorni sembrano appiccicati gli uni agli altri, dentro un builging grigio e triste di periferia, con qualche rissa condominiale annessa. Un mondo da operetta, senza però nè il riso, nè le canzoni, senza la musica nè il buonumore, ma con un solo e unico jungle: Le temps ici semble ne pas vouloir passer...

Basta deliri per oggi è quasi ora di andare a casa. Come diceva l'indomita Rossella O'Hara in Via col vento, il famoso film che mio padre, povero sgobbone, mi mostrava la domenica nel cinema dell'oratorio: "Ci penserò domani", diceva.

Anch'io ci penserò domani... Si, domani... a come mi sono trasformata in questi anni di triste lavoro, da indomita O'Hara la rossa, a umile, opaca e rassegnata Cenerentola. Si, domani... a questa sensazione di non aver vissuto che mi opprime il petto. Si, domani... al fatto che qualcuno forse ha vissuto al posto mio. Si, sempre domani... a questi anni lavorativi che sono passati senza che me ne accorgessi veramente. Si, domani e solo domani... a tutte le lotte intestine, alle grida interiori, ai momenti iperattivi e alle pause anestetizzanti, alle fasi stressanti e ai momenti di sconforto, agli sbotti trattenuti e a quelli invece esplosi... Si, a tutto questo ci penserò domani... adesso devo continuare a lavorare.

Eppure in tutti questi anni cerebralmente oppiacei, j'ai vraiment l'impression de ne pas avoir vecu... j'ai comme l'impression que quelqu'un a vecu à ma place... Forse sono già vecchia e non me ne sono accorta. O forse sono ancora giovane in un corpo da vecchia. Perchè lambiccarsi in questa impresa donchisciottesca.

Di cosa mi stupisco e perchè devo cercare a tutti i costi un senso ai miei pensieri? Forse perchè non è onesto mentire a se stessi nell'unica vita che ci è stata concessa...

Ora basta. Non sono pagata per pensare. This is my life: I am just a fucking fonctionnaire... 

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